The Isle of Dogs è un film esteticamente meraviglioso.
Un po’ inquietante, apertamente politico, infantile e bizzarro, è una commedia con spunti profondi, contro le discriminazioni (soprattutto immotivate) e l’emarginazione; è anche un film ecologista.
Wes Anderson crea un altro dei suoi universi chiusi, visivamente perfetti, una realtà parallela di fantasia, che gli serve per parlare dell’ingiustizia e della speranza, nei suoi modi non convenzionali e con grandissimo stile.
Un magnifico artificio in stop-motion, la tecnica di animazione che costruisce, di solito in argilla, e manipola fisicamente ogni personaggio e dettaglio della scena, fotogramma dopo fotogramma, fino a dare l’impressione del movimento, quando poi le sequenze sono mostrate in velocità.
The Nightmare Before Christmas (1993) scritto e prodotto da Tim Burton e i bellissimi lavori di Nick Park, il creatore britannico di Wallace & Gromit (Chicken Run, 2000; The Curse of the Were-Rabbit, 2005) sono grandi esempi di clay-animation. E ovviamente Fantastic Mr. Fox (2009) dello stesso Wes Anderson.
A questo link, un bel documentario behind the scenes con dettagli sulla realizzazione di alcuni dei tanti cani dell'Isola dal creatore Andy Gent:
https://www.nytimes.com/2018/03/21/movies/isle-of-dogs-behind-the-scenes-wes-anderson.html
Presentato come film d’apertura alla Berlinale nel febbraio 2018, dove ha guadagnato l’Orso d’Argento, e molto atteso, Isle of Dogs, (che si può anche pronunciare come se fosse scritto “I love dogs”), ha tutte le caratteristiche autoriali tipiche del creativo regista: la vicenda è divisa in capitoli i cui titoli sono compilati sullo schermo; la storia è introdotta da un narratore onnisciente extra-diegetico, qui l'eminente attore nordamericano Courtney B. Vance; i personaggi sono trasportati in un poetico e sgangherato carrellino aereo, in altri suoi film era una cabinovia o teleferica; i cattivi sono dittatori imbroglioni e corrotti dall'aspetto spettrale, mortifero e sono veri e propri assassini; tutto è soffuso di black humour e di incomparabile eccentrico senso estetico.
La storia è emblematica: ambientata in una Prefettura giapponese, per ordine governativo i cani dovranno essere strappati ai loro affetti e relegati in una landa desolata, denominata Trash Island, in una sorta di confino obbligato ingiusto e incolpevole (tipo CPR per intenderci). Un ragazzino, Atari Kobayashi, partirà alla ricerca del suo amato Spot, il suo cane che la polizia gli ha sequestrato e inviato in esilio sull'isola.
Dialoghi eleganti e intelligenti, un film scritto bene: su tutti, due dialoghi particolarmente belli sono il primo incontro tra la cagnolina upper-class Nutmeg e il randagio Chief. I due personaggi sono chiaramente ispirati a Lady and the Tramp, Lilli e il Vagabondo, Disney, 1955. E poi la scena in cui lo stesso Chief racconta di quella volta che morse la mano che lo nutriva, (come recita il famoso proverbio), senza sapere perché lo fece, cosa che mutò il suo destino.
I cani -come di peluche- sono animati con grande accuratezza e assai espressivi nella loro stilizzazione un po’ vintage.
Magnifiche le performance attoriali, eccelle il duro Bryan Cranston (il prof. Walter White di Breaking Bad), non nuovo a ruoli in film d’animazione, che interpreta il nero randagio Chief. Jupiter, il San Bernardo dal manto scuro, ha la voce profonda di F. Murray Abraham; Oracle, il cagnolino nano dagli occhi enucleati e spiritati, che sa predire il futuro, o meglio capisce la tv degli umani e quindi può dire quel che succederà, ha la voce ieratica di Tilda Swinton; Nutmeg, l’elegante cagnolina fulva, colore accuratamente scelto dal regista sui toni di una elegantissima vetrina di Gucci, ha la voce seducente di Scarlett Johansson; Boss, la mascotte della squadra di baseball, ha la voce inconfondibile di Bill Murray. Molte altre sono le voci interessanti: niente meno che Yoko Ono da la voce alla scienziata che lavora all’antidoto; e ancora ci sono Edward Norton (Rex); Jeff Goldblum (Duke); Greta Gerwig, l’autrice del bellissimo Lady Bird, (2017), sua opera prima come regista, (e che alcuni anni dopo farà l'universalmente acclamato Barbie), interpreta la exchange student dall’Ohio, che darà una mano nella riscossa canina; Frances McDormand, (grandissima in Fargo), è la impacciata emotiva interprete simultaneista dal giapponese; e ancora Harvey Keitel (Gondo); e Liev Schreiber (l’autore di Ogni Cosa È Illuminata, nonché il cattivo di Wolverine) qui è il mitico Spots; e c’è Anjelica Houston; … un cast da capogiro.
Proprio perché non vediamo tutti questi talenti recitare, ma li ascoltiamo soltanto, ben inteso nella versione originale, il film risuona come una imperdibile sinfonia di voci recitanti di altissimo livello.
Il doppiaggio italiano, (detto da una appassionata cinefila che non ammette il doppiaggio), è in questo caso abbastanza buono. Ovviamente, vedi un altro film: il film in italiano non è lo stesso film, questo è un fatto noto e totalmente evidente.
Sia Trash Island, sia la città di Megasaki sono luoghi pazzeschi, minuziosamente costruiti e affrescati: Trash Island è una affascinante terrificante landa desolata, che ricorda il paesaggio all’inizio di Wall-E (2008), prodotto da John Lasseter; Megasaki è futurista in quel modo come si immaginava il futuro sci-fi negli anni Sessanta, molto colorato e pop.
Ogni interno di questa città è curato da un design elegantissimo.
Il ritmo della vicenda è incalzante e brillante, come sempre nei film di questo regista, con continui piccoli colpi di scena e piccoli spiazzanti rovesciamenti della trama e qualche coup de theatre deliziosamente prevedibile e in stile feuilleton ottocentesco, come la parentela classicamente rivelata nel momento più drammatico.
La vicenda ha risvolti sinistri e un piglio rocambolesco, tuttavia dentro a tutto ciò i protagonisti restano sempre molto ‘cool’, in una maniera assai divertente tipica in questo autore.
Anche la colonna sonora originale del film è raffinatissima e perfetta, curata dal celebre e prolifico compositore francese Alexandre Desplat, che già vinse una valanga di premi per la colonna sonora di The Grand Budapest Hotel, (2014) e che lavorò con Wes Anderson anche per Fantastic Mr. Fox e Moonrise Kingdom (2012). È composta da pregevoli echi dai film del grande Akira Kurosawa I Sette Samurai (1954) e Drunken Angel (1948), mirabilmente mescolati a un curioso e raffinato pop psichedelico vintage.
Il film ci regala anche una bella canzone de The West Coast Pop Art Experimental Band, I Won’t Hurt You (1967), che si intona perfettamente a quest’opera cinematografica.
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