Die Fabel in tedesco è la favola. The Fabelmans è il cognome di fantasia che Spielberg e il co-autore della sceneggiatura Tony Kushner danno alla versione semi-fictional della famiglia di origine di Steven Spielberg, un po' a dire "i narratori di favole". Effettivamente Spielberg, in sessant'anni di carriera, ci ha narrato moltissime storie meravigliose, diverse e interessantissime. Ora ce ne racconta una inedita: durante lo sconcertante lockdown del 2020 decide di impiegare il tempo raccontando di sé, come non aveva mai fatto. Ripercorre gli eventi della sua vita dal 1952 al 1965: dall'infanzia -i suoi 7 anni- fino ai 18 anni, alla vigilia della sua emancipazione e delle sue prime scelte adulte.
Ne viene fuori un film autobiografico dalla grazia affascinante, un film disarmato e disarmante, al tempo stesso intimo e spettacolare: un film che conferma il tocco magico di Spielberg, sempre presente in tutte le sue opere.
L'operazione che ha fatto l'autore, mentre creava questo bellissimo spettacolo, è stata probabilmente anche quella di affrontare la propria fragilità e vulnerabilità di un tempo iniziale dalla attuale posizione di gigantesca matura forza: in questo modo cauterizza le ferite dell'infanzia, riscrive il dolore, la rabbia, le frustrazioni di quel tempo con la sua penna fatata, penna che sempre scrive il lieto fine, che è la caratteristica, di più: la signature feature di questo grande regista.
The Fabelmans è un Bildungsroman, la storia di un bambino che diventerà un grandissimo uomo di Cinema, ma è e anche la storia di quell'ossessione, quell'emozione che diventerà amore assoluto per il Cinema.
L'evento scatenante di questo amore è la visione al cinema con i genitori del film The Greatest Show on Earth di Cecil B. DeMille (1952) e in particolare della scena altamente drammatica dello scontro dell'auto del protagonista contro il treno e poi contro un altro treno. È per superare, comprendere, dominare il trauma di questa visione che il bambino Spielberg comincia a filmare.
Il bambino ebreo Sammy Fabelman, alter-ego di Steven Spielberg, da piccolo interpretato da Mateo Zoryon Francis-DeFord e da adolescente dal magnifico Gabriel LaBelle, apprende avidamente dai suoi còlti genitori: il padre Burt (Paul Dano) è un ingegnere che si occupa di intelligenza artificiale e progetta i primi computer della Storia, la madre Mitzi (Michelle Williams) è una pianista di grande talento, che ha rinunciato alla carriera concertistica per fare la madre di famiglia.
Il contesto di casa è amorevole e incoraggiante; una deviazione da questo clima supportivo si rivela più in là, quando Sammy scopre che lo "zio" Bennie (Seth Rogen) è "troppo" amico della mamma, che svela problemi psichici di depressione.
La famiglia trasloca dal New Jersey all'Arizona e poi alla California del Nord, dove Sammy farà esperienza di antisemitismo in un ambiente sociale middle class in quell'epoca completamente avulso dalle influenze culturali esterne.
La famiglia si separerà.
La cinepresa in mano è ciò che emancipa il ragazzo dalla famiglia e dalle sue crisi.
L'urgenza di raccontare le proprie storie con i film, la necessità di osservare il mondo con l'occhio della sua cinepresa per capirlo e di filtrare con essa le proprie emozioni per restituirle al pubblico è l'elaborazione indispensabile per crescere.
Il film, oltre a darci un'idea dei corto e mediometraggi che il giovanissimo Spielberg realizzò a livello amatoriale, tra i quali il bellissimo film del party di fine liceo sulla spiaggia, procede per aneddoti, scenette che emergono dalla memoria. (Il procedere del racconto per scenette è una modalità che non mi entusiasma, d'altra parte in un biopic è prevista.)
La visita dello zio Boris, artista di circo, (Judd Hirsch in una energica performance), che mette in guardia il giovane sull'assolutezza dell'essere un artista, condizione che sacrifica tutto quanto all'arte; i primi approcci con la fidanzatina ultracattolica Monica (Chloe East), che si innamora del giovane perché "ebreo come l'amato e desiderato -in teoria anche carnalmente!- Gesù"; e verso la fine del film l'aneddoto dell'incontro tra l'ambizioso giovane con la febbre del fare cinema e il mitico regista John Ford, -un cameo di David Lynch: è questo il punto di partenza senza ritorno verso una vita dedicata al Cinema.
Perfettamente confezionato, splendidamente recitato, appassionante, il film non ha un attimo di stanchezza, nessuna lungaggine.
Decisamente da vedere.
il giovane Spielberg e la sua versione fictional del bravissimo attore Gabriel LaBelle
il bambino (Mateo Zoryon Francis-DeFord) al cinema per la prima volta nella sua vita con mamma (Michelle Williams) e papà (Paul Dano):
l'adolescente con la sua fidanzatina Monica (Chloe East)
la mamma (Michelle Wililams) in campeggio con le sorelline, mentre il figlio filma
A gennaio 2023 Steven Spielberg è premiato con due Golden Globe alla 80° edizione del concorso, miglior film drammatico e miglior regia
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