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THE BRUTALIST di Brady Corbet (2024)

  • Writer: Planet Claire
    Planet Claire
  • Feb 26
  • 6 min read

Il film è visivamente bellissimo, ogni inquadratura è audace, insolita e inattesa, con una prospettiva personalissima. Il modo di raccontare è visionario e innovativo. Il pregio principale di questo film è di non essere banale nel porgere la narrazione.


Mentre storici e esperti discutono su quanto sia accurato The Brutalist, una storia immaginaria sulle battaglie personali e professionali di un sopravvissuto all'Olocausto emigrato negli Stati Uniti, il film è  favorito agli Oscar. The Brutalist è infatti candidato a dieci premi Oscar, tra cui Miglior Film, Miglior Regia e Miglior Attore per un magistrale Adrien Brody, nella sua più efficace interpretazione di sempre, il protagonista Lászlo Toth. L'opera è stata ampiamente riconosciuta per la sua ambizione e profondità tematica.


Co-scritto da Brady Corbet con la sua compagna Mona Fastvold, il film si basa su una ricerca meticolosa sull'Olocausto. Secondo le ricerche dei due cineasti, pochissimi architetti ebrei europei sopravvissero all'Olocausto. Nel 1933 la Germania vietò a quasi cinquecento architetti ebrei di esercitare la professione. Mentre alcuni riuscirono a fuggire, molti furono deportati e uccisi nei campi di concentramento. “Judy Becker, la nostra scenografa, ha esaminato i disegni e i progetti di edifici mai realizzati di architetti che non sono sopravvissuti”, racconta Mona Fastvold. “Era nostro desiderio cercare di rendere omaggio a loro." Il film racconta l'esperienza degli immigrati nel dopoguerra americano, il trauma e le cicatrici emotive, l'ambizione di integrità professionale e artistica contro le pressioni del capitalismo e della grettezza dei committenti.


La durata di questo film epico è imponente: 215 minuti, inclusa una pausa in sala di 15 minuti. Girato in formato VistaVision e presentato in 70mm, The Brutalist è un'opera monumentale sia per ambizione sia per esecuzione.

La cinematografia di Lol Crawley cattura con maestria l'essenza dell'epoca, mentre la scenografia di Judy Becker ricrea fedelmente l'ambiente del dopoguerra.


The Brutalist è un'epopea tentacolare che affronta temi pesanti: la vera natura del "sogno americano"il sistema di classi radicato nella società nordamericana, il razzismo, le esperienze degli immigrati ebrei negli Stati Uniti dopo la Seconda Guerra Mondiale e il modo in cui il trauma e l'angoscia lacerano il tessuto di una famiglia.


Lászlo è un sostenitore del movimento dell'architettura brutalista - uno stile minimalista (nato in Gran Bretagna) fatto da linee rette pulite, giganteschi blocchi di cemento squadrati, colori neutri, monocromatici, in estremo contrasto con lo stile ornato e decorativo che aveva dominato l'architettura europea per decenni.

Il nostro protagonista, dopo essersi stabilito in Pennsylvania, fatica a ritrovare un equilibrio. Lavora dapprima come manovale e fa la fame, scivola nella depressione e nella tossicodipendenza, finché un ricco cliente gli cambia la vita. L'industriale Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce), un uomo enigmatico, gli commissiona la progettazione e la costruzione di un grandioso centro comunitario, un monumento in onore della sua defunta madre. Tuttavia, sorgono numerosi problemi e le mutevoli relazioni personali nella vita di Lászlo sono perturbanti e diverse da quello che sembrano: con il geloso cugino Attila (Alessandro Nivola), con la moglie  Erzsébet (Felicity Jones) che riesce a arrivare in America molti anni dopo, costretta su una sedia a rotelle da una osteoporosi da denutrizione come conseguenza delle atrocità del Lager, con la nipote traumatizzata Zsófia (Raffey Cassidy) e soprattutto con lo stesso volubile e arrogante Van Buren. A Toth è sempre più chiaro che un ebreo è emarginato in quella società rurale bianca e protestante. La famiglia Van Buren lo brutalizza emotivamente e, in una scena terribile, anche fisicamente. "Ti tolleriamo", dice Harry (Joe Alwyn), il figlio predatore e ghignante dei Van Buren, portando Toth a concludere con disperazione alla moglie: "Non ci vogliono qui".


Il mito americano, la favola del 'coming to America' è amaro e violento.

Il concetto di American Dream fu divulgato per la prima volta dallo scrittore James Truslow Adams nel 1931, all'apice della Grande Depressione, e diffuse l'ideale che negli Stati Uniti tutti abbiano la libertà e l'opportunità di costruirsi una vita migliore. Il regista Corbet, anch'egli americano, prende a martellate questa idea. Propone una storia che inizia in un territorio familiare, ma continua in luoghi inesplorati.


Quando l'architetto ungherese vede per la prima volta la Statua della Libertà di New York nella scena d'apertura del film di Brady Corbet, questa è capovolta. È il 1947:  Toth, emigra per iniziare una nuova vita negli Stati Uniti. La statua sembra capovolta solo a causa della prospettiva scomoda di Toth; ma l'inversione visiva dello storico punto di accoglienza dell'America per gli immigrati è un avvertimento che questo film non è una storia di successo sull'American Dream. Questa immagine della Statua della Libertà simboleggia la percezione distorta del 'sogno americano' e anticipa le difficoltà che l'architetto affronterà nel suo nuovo mondo: la lunga scena caotica iniziale pone le basi per il viaggio emotivo del protagonista.


Toth, liberato dalle atrocità del Konzentrationslager di Buchenwald, è stato forzatamente separato dalla moglie Erzsébet (Felicity Jones), deportata dai nazisti in un altro Lager e spera che lei possa raggiungerlo. Prima della guerra, László Toth era stato un brillante studente del Bauhaus in Germania e un affermato architetto di edifici pubblici modernisti a Budapest.


In una scena cruciale, l'industriale Harrison Lee Van Buren chiede a Lászlo perché abbia scelto di diventare architetto. Lászlo risponde riflettendo su come le sue costruzioni in Europa siano sopravvissute alla devastazione della guerra, esprimendo la speranza che le sue opere parlino alle generazioni future e evidenziando il potere dell'architettura come mezzo di resistenza e memoria.


Una sensazione fortissima che pervade ogni scena è che i personaggi che hanno potere su Lászlo -i suoi datori di lavoro e committenti- sono tutti sottesi da una strana sensualità che pare sottilmente minacciosa (e infatti lo è).


Una delle sequenze più drammatiche del film si svolge in una cava di marmo a Carrara. Durante un viaggio per acquistare materiali per il progetto, Harrison aggredisce sessualmente Lászlo in uno stato di intossicazione. Questa scena cruda rappresenta una brutale manifestazione di potere e sfruttamento, mettendo in luce le dinamiche oppressive che Lászlo subisce e affronta nel suo percorso e l'impatto devastante dell'abuso e del tradimento.


Infine, l'epilogo nel 1980, durante la Biennale di Architettura di Venezia, dove è presentata una retrospettiva delle opere di Lászlo Toth: la figlia di sua nipote Zsófia tiene un discorso in cui descrive come Lászlo abbia progettato il Van Buren Institute per rappresentare l'architettura dei campi di concentramento, trasformando il trauma in arte. Questa scena culminante celebra la resilienza e la capacità di Lászlo di trasformare il dolore in espressione creativa, offrendo una chiusura emotiva.


Ma c'è un sottofondo di ambiguità espresso dalla canzone pop sui titoli di coda: One for you, one for me dei Fratelli La Bionda, un hit dell'epoca (1978). Una canzonetta superficiale dopo un film teso e drammatico, che affronta argomenti profondi e dolorosi, è una scelta stranamente scherzosa da parte degli autori, influenzati dall'ambientazione italiana del finale, che lascia sconcertati.


In definitiva, questa epopea del secondo dopoguerra ci parla di immigrati e di artisti. László è entrambe le cose. Viene respinto per le sue differenze religiose e culturali rispetto alla gente del posto e inoltre è incompreso come creativo, circondato da americani che non possono capire nessun aspetto della sua vita precedente. Harrison Lee Van Buren è l'emblema dell'America nella sua forma più tossica: un capitalista che non si preoccupa di comprendere la situazione di László e nemmeno la sua arte, eppure desidera possederla. In modo estremo, Van Buren fa valere il suo bisogno di potere su Lászlo, arrivando a aggredirlo sessualmente mentre gli ricorda che non sta vivendo al massimo delle sue potenzialità! Harrison è invidioso del genio creativo di Lászlo, suggerendo che la sua vasta ricchezza lo ha portato soltanto a un'esistenza squallida. Nonostante la centralità del personaggio antagonista, The Brutalist è comunque il ritratto di Lászlo e il finale del film suggerisce che, a prescindere dal tragico, angoscioso e infelice viaggio, egli raggiunge la sua destinazione e il riconoscimento da parte del mondo culturale.


La colonna sonora è composta da Daniel Blumberg, autore e cantautore britannico dall'approccio sperimentale. Questo è il suo secondo lavoro per il cinema, dopo la colonna sonora per The World to Come (2020). La musica di Blumberg è parte integrante dell'esperienza cinematografica di The Brutalist. L'ipnotica ouverture di dieci minuti stabilisce immediatamente l'atmosfera epica e drammatica della narrazione. Tuttavia, non ho trovato la colonna sonora sempre così efficace nel contesto: la musica appare spesso sottotono, al punto da risultare sostanzialmente inudibile e quindi di scarso impatto sulla spinta emotiva del film. È solo quando si ascolta la partitura come album a se stante che le intenzioni e la maestria di Blumberg emergono.


The Brutalist, presentato alla 81° Mostra del Cinema di Venezia, dove ha ottenuto il Leone d'Argento, è il terzo lungometraggio dello scrittore/regista ed ex attore Brady Corbet, dopo The Childhood of a Leader (2015), un film complesso e sorprendente diviso in capitoli che raccontano tre momenti di ira violenta di un bambino contro la sua famiglia e la società ipocrita, fino all'epilogo in cui lo vediamo adulto e osannato dalla folla perché è divenuto un leader; e dopo Vox Lux (2018), secondo lungometraggio, altrettanto violento e inconsueto, su una cantantautrice pop e le sue vicende traumatiche.


Adrien Brody, grandissimo interprete del protagonista, con Alessandro Nivola nel ruolo del cugino Attila
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grandissimo Adrien Brody nella sua migliore interpretazione di sempre
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la realtà non è quello che sembra nella Pensylvania rurale e benpensante
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L'industriale Harrison Lee Van Buren interpretato dall'attore Guy Pearce
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