Black Tea di Abderrahmane Sissako (2024)
- Planet Claire
- Jun 2
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Il regista mauritano Abderrahmane Sissako crea opere dal linguaggio poetico e racconta il dialogo profondo tra culture africane, europee e asiatiche. Il suo stile è raffinato, usa la lentezza contemplativa e una narrazione frammentata. È un autore importante del cinema africano contemporaneo.
Tuttavia, questo suo ultimo film, Black Tea, (2024) non è riuscito bene.
Nella bella scena iniziale del lungometraggio, Aya (l’attrice francese Nina Mélo) è una delle spose in una cerimonia nuziale collettiva in Costa d’Avorio. La donna, a sorpresa e all'ultimissimo minuto, rifiuta lo sposo, perché ha appreso -giusto il giorno prima- che è un fedifrago, o -per meglio dire- un poligamo.
Dopo che vediamo Aya fuggire -tra lo sconcerto dei presenti- dal matrimonio africano, l’ambientazione cambia: ci troviamo in un centro commerciale cinese, frequentato da africani. Con un’acconciatura nuova e sofisticata, Aya si trova nella cosiddetta 'Chocolate City' del porto meridionale cinese di Guangzhou, (nei pressi di Hong Kong), dove gli africani arrivano per acquistare merci da rivendere nei propri Paesi o per offrirsi come manodopera a basso costo. In queste prime sequenze, tra un dedalo di negozi, i lavoratori africani e cinesi vivono in utopica coesistenza, tra fascinazione reciproca e pettegolezzi. C’è anche un negozio di parrucchiere, che, come il barbershop di Spike Lee nel quartiere Bedford-Stuyvesant di Brooklyn, (Do The Right Thing, 1989), è luogo di aggregazione e dialogo della comunità africana. Ma, al netto della vivacità e dell’ironia con cui Spike Lee tratta i suoi temi: identità, orgoglio razziale e rabbia sociale, sono rappresentati qui in maniera blanda.
Aya è elegantissima in ogni scena. Parla correntemente mandarino e vorrei sapere da un cinese madrelingua come se la cava nei dialoghi del film con l’accento e la parlata, cioè come è reso linguisticamente questo aspetto: nel film si vede che si esprime con compiutezza e fluidamente in lingua cinese.
Viene assunta come apprendista da Wong Cai (l’attore taiwanese Chang Han), un ricco commerciante di tè di altissima qualità. Il commerciante è divorziato, molto affascinante e elegante, (una sorta di Richard Gere ai tempi dell’insopportabile film con Julia Roberts, My Fair Lady, ah no, si intitolava Pretty Woman). La sua bottega di tea sopraffini, di cui lui è un intenditore assoluto, è deliziosa, quanto il suo appartamento impeccabilmente stiloso e ordinato. Wong da alla sua innamorata africana Aya il soprannome di Black Tea, per il colore della sua pelle e per la forza e persistenza del suo carattere.
Io sono una appassionata di tea, ma non sono riuscita a apprendere nuove nozioni da connoisseur pur ascoltando attentamente i dialoghi del film. Comunque, l’insegnamento dei segreti del tea sfocia in una storia d’amore sottilmente sensuale. In queste immagini soffuse il regista Sissako rende omaggio con evidente piacere a Wong Kar-wai, (In The Mood For Love, 2000); a Zhang Yimou e a altri grandi registi cinesi.
Finanziato da tre continenti, Black Tea è un film che scivola rapidamente in un esotismo sfuggente e svenevole. La narrazione troppo sfumata che a tratti confonde realtà e sogno non è poi così chiara nemmeno allo spettatore che ben conosca il linguaggio cinematografico. Il racconto appare lineare, ma questa semplicità narrativa viene assediata da frammenti di trame secondarie, in un racconto di amore multiculturale e dolori post-matrimoniali.
L’ex moglie del raffinato commerciante di tea, Ying (l’attrice taiwanese Wu Ke-Xi), è una presenza vigile e giudicante. Il loro figlio Li-Ben (Michael Chang), che lavora con il padre nella bottega del tea, flirta con Wen (Huang Wei), una ragazza della classe operaia che vende valigie nel negozio di fronte, personaggio ricorrente ma non sviluppato, che -evidentemente- è lì al solo scopo di rappresentare la nuova generazione, vivace e vagamente ribelle (?), o forse soltanto capricciosa e adolescenziale.
La causa del divorzio tra Wong e Ying è stata la figlia che l’uomo aveva avuto molti anni prima con un’altra amante africana, originaria di Capo Verde, poi tornata in patria (è quasi impossibile per un immigrato africano ottenere una permanenza legale prolungata in Cina). Wong -dopo ben vent’anni- desidera rivedere sua figlia a tal punto che sogna una dolce riunione con la ragazza, un sogno da cui si risveglia di soprassalto mentre pianifica un viaggio che non sapremo mai se realizzerà. Come spettatori, nella seconda metà inoltrata del film siamo ormai sbalorditi e un po’ intorpiditi da uno script che diviene labirintico, nonostante la sua ovvietà.
A contribuire a questo senso di vaghezza deliberata è anche l’immaginario stratificato del quartiere africano di Guangzhou, ricreato dal direttore della fotografia Aymerick Pilarski su set taiwanesi. Ogni inquadratura è velata da riflessi e trasparenze che creano una patina a lungo andare claustrofobica, che produce non già fascino pop vibrante, quanto piuttosto una piattezza digitale sfocata. Se è metafora del disorientamento della protagonista Aya, non è ben riuscita.
Pessima la scena dei due amanti in piedi nel centro dell'inquadratura, in mezzo a un campo di tea fintissimo, (infatti non vi è alcun idillio con la Natura), dove lui avvolge lei in un amorevole abbraccio da dietro (inevitabile pensare ridendo alla parodia Una Pallottola Spuntata con Leslie Nielsen e Priscilla Presley), mentre una farfalla che definisco “perfettamente intelligente” (= realizzata grossolanamente con la intelligenza artificiale) svolazza intorno e tra i due personaggi, (emblema di delicatezza e fragilità?, di fine senso estetico?).
Come dimostrato in Bamako (2006), il capolavoro su Africa e diritto internazionale, e in Timbuktu (2014), parabola su un villaggio invaso da fondamentalisti islamici, Sissako è un regista coraggioso nel suo cinema politico. In Black Tea, invece, l’uso sprezzante della manodopera africana da parte della Cina è trattato con garbo e misura tali da risultare elusivo, fino a una scena finale in cui (finalmente!) il tema del razzismo è introdotto, nello scontro verbale generazionale tra il figlio del mercante di tea e i nonni tradizionalisti, (si pensi a Indovina Chi Viene A Cena, di Stanley Kramer, 1967, dove la cena è il luogo simbolico del confronto tra la etnia dominante e quella marginalizzata).
Questo film è anche un’occasione non spesa per approfondire la politica cinese espansionista della ‘Nuova Via della Seta’, che ha portato molti Paesi africani a stringere collaborazioni con la Cina, svendendo il proprio Paese. Il tema è citato ma quasi di sfuggita, alla fine del film, ma a quel punto lo spettatore è ormai estenuato e la sua suspension of disbelief si è dissolta da un pezzo.
Black Tea è la storia di una donna africana che si ribella alla tradizione maschilista del suo Paese e ricerca una nuova identità all’interno di un’altra cultura dominante, ma c’è un bel po’ di incoerenza e una buona dose di convenzionalismo in questo mélo. E a me sorge il dubbio che il regista Sissako abbia accontentato, usando "edulcoranti", i vari finanziatori rendendo la sua opera non incisiva e tutto sommato trascurabile.
I lungometraggi del regista Abderrahmane Sissako:
La Vie sur Terre (1998)
Ibrido tra documentario e fiction, ambientato nel villaggio maliano di Sokolo. Il film riflette sulla vita quotidiana nel Sahel, toccando i temi dell'esilio e del tempo.
Heremakono (Aspettando la felicità) (En attendant le bonheur, 2002)
Ambientato in una cittadina costiera della Mauritania, racconta l'attesa, il passaggio e l'identità in bilico tra Africa e Europa. Premiato a Cannes nella sezione "Un Certain Regard".
Bamako (2006)
Un’opera politica potente: in un cortile domestico di Bamako, si inscena un processo simbolico contro la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, accusati di affamare l’Africa. Film militante, girato in forma teatrale e corale.
Timbuktu (2014)
Il suo film più conosciuto. Candidato all’Oscar come miglior film straniero, racconta l’occupazione jihadista di Timbuktu attraverso lo sguardo di una famiglia. Un film lirico e durissimo, contro l’estremismo religioso.
Black Tea (2024)
Un ritorno al Cinema dopo dieci anni. Ambientato tra l’Africa e la Cina, narra la storia di una donna ivoriana che si costruisce una nuova vita in Cina, a Guangzhou, intrecciando i temi della diaspora e dell’amore interculturale, con esiti non perfettamente riusciti.





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