durata 119'
Il regista russo Ilya Povolotosky, qui al suo primo feature, proviene dal documentario. Forte di una narrazione permeata da un sentimento di verità, ci immerge nel silenzio della steppa russa, spesso senza musica extradiegetica, soltanto i suoni dell'ambiente esterno, della Natura, e a tratti il rumore di fondo della strada.
Il film è un'esperienza sensoriale di deriva, dalla lentezza metafisica e una sorta di sognante desolazione.
Fa pensare alla trilogia di road movie di Wim Wenders (Alice nelle città, 1974; Wrong Move, 1975; Kings of the Road, 1976): il road movie come state of mind, il viaggio in senso esistenzialista come stato della mente.
Grace non è un film che gioca sull'emotività, ma indaga, soprattutto nel finale, nelle profondità psicologiche dei suoi personaggi.
Il 36enne regista ha portato il suo primo lungometraggio a Cannes nel maggio scorso; ha confermato "il disastro che sta accadendo in Russia sotto Putin".
Nato negli Urali, in una remota zona industriale dove non ci sono cinema, il regista ricorda le copie VHS che venivano scambiate e che gli hanno permesso di conoscere Tarkovski, Sokourov, videocassette che poi venivano riscritte sopra con i film di Zemeckis, Cameron, ...
Un padre (l'attore Gela Chitava) e la figlia adolescente (la brava attrice Maria Lukyanova) viaggiano in remoti e vuoti territori russi a bordo di un furgone decrepito che è la loro casa. Il loro legame familiare è spesso espresso dal silenzio, non c'è una comunicativa esplicita tra loro. La ragazza è infastidita e turbata dagli incontri occasionali che il padre ha con varie donne che incontra lungo il viaggio.
Si mantengono attrezzando un cinema mobile itinerante e con la vendita di biglietti, patatine e birra. (I frammenti dei film proiettati, che certamente il regista ha scelto accuratamente, sono poco conosciuti in Sud Europa, un crime di Alexey Balabanov Brother del 1997; Fidelity di Nigina Sayfullaeva del 2019.)
Il padre arrotonda i magri ricavi vendendo cinema porno piratato, comprando benzina al mercato nero: una vita precaria attraverso strade sterrate, luoghi desolati, edifici abbandonati dalle pareti scrostate e crollanti, come un centro di ricerca scientifica nel finale del film, con le finestre rotte attraversate dal vento gelido della steppa, quando, mentre il padre ha l'ennesimo incontro con una solitaria scienziata meteorologa, la figlia in uno slancio di autonomia conquista finalmente il proprio potere di donna adulta, finalmente riequilibra le tensioni del rapporto con il padre e ricompone il conflitto latente.
Il film è infatti anche un coming-of-age e nel finale un dramma psicologico.
La ragazza orfana della mamma e il padre vedovo portano l'urna con le ceneri della mamma a bordo del furgone. Le ceneri saranno poi liberate dalla figlia nel Mar Bianco quando la ragazza compierà l'elaborazione del lutto, diventando donna.
Il percorso del van attraversa tutta la Russia fino al mare, dalla repubblica Kabardino-Balkaria al Sud della sconfinata regione e si avventura fino alle sponde del Mar Bianco nel Nord-Ovest. Un film di frontiera; qui le frontiere invisibili appartengono alla vastità e alla diversità del territorio russo, diversità linguistiche, culturali, antropologiche dell'immenso Paese.
C'è un lavoro, appunto di derivazione documentaristica, sulla dilatazione del tempo.
Ci sono vie di fuga che il film si concede, piccole linee che vanno verso l'esterno con personaggi secondari marginali incontrati dal padre con la figlia durante il loro lunghissimo viaggio: frammenti di sospensione narrativa.
Una storia contemporanea, all'interno di un film che pare comunque senza tempo.
l protagonista del film è il desiderio di andare in un altrove, desiderio di fuga che appartiene in qualche modo a tutti i personaggi.
Musica noise elettronica di Zurkas Tepla.
Maria Lukyanova è la giovane protagonista
padre e figlia sul van che è un cinema mobile che attraversa la desolata Russia rurale
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