The Wild Bunch di Sam Peckinpah (1969)
- Planet Claire
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articolo di Clara Bruno, tempo di lettura: 6'
film visto al Cinema Massimo Tre (Torino) il 16 dicembre 2025
regia di Sam Peckinpah
direttore della fotografia: Lucien Ballard
durata: 2h25'
Il Cinema, più di ogni altro linguaggio, ha saputo interpretare la controversa e affascinante figura del bandito come simbolo di resistenza, devianza e conflitto sociale.
The Wild Bunch (Il mucchio selvaggio) di Sam Peckinpah, dove "wild" in inglese significa "selvaggio, impulsivo, ribelle, fuori dagli schemi, estremo, caotico, sfrenato", è un'opera magistrale. Girato interamente in Messico, il film ha fatto il giro del pianeta. Moltissimo è stato scritto su questo capolavoro, non voglio certo aggiungere nulla, ma è interessante rivedere e "rileggere" questo grande film, che ha 56 anni. The Wild Bunch può infatti essere considerato come "il funerale" del film Western classico e, cogliendo lo spirito dell'epoca in cui è stato scritto e girato, rappresenta la crisi del mito americano. Il West di Peckinpah non è più il luogo di un'epoca mitica di fondazione, ma un mondo che sta finendo, schiacciato dalla modernità, dalle armi automatiche, dal capitale e dallo Stato. Non c’è più frontiera, non c’è più progresso morale, non c’è più eroismo puro. Il Western diventa qui una tragedia crepuscolare. Siamo nel Texas nel 1913. Un gruppo di fuorilegge già adulti, non giovanissimi, cerca di compiere l'ultimo grande colpo sperando (senza troppa convinzione) di riuscire a ritirarsi con un bel mucchio di denaro. Il piano è di rapinare i fucili dell'esercito americano e venderli a un generale messicano durante la (fallimentare) rivoluzione del Messico, in uno scenario che rappresenterà la fine del film Western tradizionale nordamericano.
Il "bunch" è un corpo collettivo, legato a un codice arcaico di lealtà ai compagni e violenza condivisa. Nessuno di quegli uomini è un eroe solitario. Il “mucchio selvaggio” rappresenta una forma primitiva di comunità, fondata sull’onore, per quanto moralmente ambigua, sulla fedeltà e sulla morte accettata come destino comune, in un mondo che pare non avere più spazio per questi uomini.
Il capo banda è Pike Bishop (William Holden), un fuorilegge stanco, disilluso e un osservatore lucido e consapevole. È l'unico che si sofferma a osservare i bambini messicani, le donne e lo spettatore capisce che quello sguardo intelligente di Pike che si sofferma lo porta a fare silenziose riflessioni etiche. Dutch Engstrom (Ernest Borgnine) è il più leale compagno di Pike, legato a lui da un’amicizia profonda e tacita. Rappresenta la fedeltà assoluta al gruppo come unica forma di famiglia possibile. Tector Gorch (Ben Johnson) e Lyle Gorch (Warren Oates) sono due fratelli violenti e impulsivi, espressione della brutalità primitiva del West. In loro la violenza è istinto, superficialità.
Angel (Jaime Sánchez) -che ha l'aspetto e l'outfit di un giovane hippie dell'epoca- è il più giovane e idealista del gruppo, legato alla rivoluzione messicana. La sua tragica fine mette a nudo la crudeltà del potere e diventa la scintilla morale dell’atto finale. Deke Thornton (Robert Ryan) è l’ex membro della banda costretto a dare loro la caccia per salvarsi dalla galera. Diviso tra il passato da fuorilegge e il presente da uomo al servizio della legge, incarna il conflitto morale e la perdita di identità. Tradisce anche il suo gruppo di disprezzabili scalcinati grossolani bounty killer. Il codice cavalleresco è tradito, il capitalismo tradisce ogni valore.
Peckinpah condanna il progresso nel senso che afferma che la modernità, così come viene usata dagli uomini, non porta giustizia, ma una violenza più efficiente e ancora più insensata.
In questo film, la violenza non è solo spettacolo sensazionalistico: diventa un linguaggio. La violenza di Sam Peckinpah è ripetitiva, sporca, meccanica; non produce catarsi, ma disgusto e stanchezza. Il montaggio frammentato e il soffermarsi della cinepresa ripetutamente sulle vittime servono a mostrare la disumanizzazione e la decostruzione dell’ipocrisia del mito americano della violenza eroica. In questo senso, Peckinpah è molto critico. Sam Peckinpah (1925-1984) era profondamente legato all’epopea del West perché le sue origini familiari affondano direttamente nella storia della frontiera americana. Nella metà dell'Ottocento, i suoi antenati europei emigrarono dalle Isole Frisone del Nord Europa verso gli Stati Uniti e raggiunsero l’Ovest viaggiando su carovane. La famiglia, seguendo l'espansione di massa verso Ovest, si stabilì in California, dove il bisnonno lavorò nel settore del legname nelle zone montuose della Sierra Nevada, lasciando persino il proprio nome a luoghi geografici ufficiali. Il nonno materno aveva un ranch a Fresno. Il regista californiano ideò un film che raffigurava la ferocia dell’epoca e gli uomini rozzi che cercavano di sopravviverle.
Il finale del film è divenuto celeberrimo. È un atto rituale, una scelta estrema, un suicidio collettivo. Quel massacro finale non è eroico né rivoluzionario: è un gesto di coerenza tragica, l’unico che pare possibile a questi uomini che non possono più andare avanti in quel mondo che si sta trasformando in modo estremo.
Morire insieme è l’ultima forma di libertà.
Peckinpah è con The Wild Bunch un autore tragico.
I personaggi di Peckinpah sono già condannati, non esiste redenzione. In questa tragedia moderna non ci sono eroi e i personaggi non hanno futuro. Il regista non giudica, non assolve, non consola. Mostra un mondo in cui l’etica sopravvive solo come remota nostalgia che si dissolve.
Il film è anche molto incentrato sul tema della fine della comunità maschile arcaica e presenta una critica radicale alla violenza istituzionalizzata.
Con una lettura contemporanea di questa bellissima storia, osserviamo che in The Wild Bunch la figura della donna è marginale e profondamente segnata dalla brutalità e dall’indifferenza morale del mondo raccontato da Peckinpah. Le donne, in particolare le giovanissime prostitute messicane, non sono personaggi attivi, non parlano oppure parlano in spagnolo senza sottotitoli in americano, come se le loro parole non avessero alcuna importanza, e infatti non ne hanno: sono presenze asservite, ridotte a oggetti di scambio e di sopravvivenza. Si prostituiscono con l’uomo più potente non per desiderio o scelta, ma per fame e necessità, schiacciate da un sistema dominato esclusivamente dagli uomini e dalla forza. La loro vita non ha valore agli occhi dei protagonisti né del potere: se vengono uccise, la loro morte non suscita reazioni. L’unico segno di pietà arriva dalle vecchie del villaggio, figure marginali anch’esse, che rappresentano una memoria morale arcaica e impotente. Peckinpah non idealizza queste donne né offre loro riscatto: al contrario, le usa per mostrare quanto il mondo del West che sta morendo sia ormai disumanizzato, un universo in cui anche l’innocenza è merce e la sofferenza femminile -che il regista coglie- è invisibile. In questo senso, le donne in The Wild Bunch incarnano il grado più basso della gerarchia umana, vittime assolute di un’epopea patriarcale.
C'è un personaggio femminile che per pochi minuti emerge (in una scena di due o tre minuti): il bandito del Bunch Ángel, l’unico messicano, incontra la sua ex fidanzata Teresa (Sonia Amelio) ad Agua Verde, la roccaforte del generale rivoluzionario Mapache, che ha devastato il loro villaggio natale. Mentre Ángel aveva abbandonato la sua terra per unirsi al Bunch nel tentativo di sfuggire alla povertà, Teresa è sopravvissuta al massacro del villaggio diventando una delle prostitute di Mapache. Ángel la scorge tra la folla, mentre lei chiama allegramente il generale Mapache, per compiacerlo. Il loro dialogo (in spagnolo e senza sottotitoli) è breve: come Ángel, anche Teresa ha lasciato il villaggio per costruirsi una vita: “Ho lasciato il villaggio per non morire di fame”, gli dice. “Ma ora sono felice. Molto felice.” Ma il volto della giovane pare tutt’altro che felice: è segnato dal dolore, dal rimorso e da una feroce volontà di sopravvivere. Ángel ha una esplosione di furia, mentre lei ride seduta sulle ginocchia di Mapache: estrae la pistola e le spara al petto. È una scena di pura sensualità. Sonia Amelio affida tutta la sua interpretazione al volto, Peckinpah la filma con primi piani di straordinaria bellezza. Peckinpah sfrutta la barriera linguistica per oscurare volutamente il contenuto del loro dialogo, costringendo lo spettatore a “leggere” la scena come tutte le altre scene con presenze femminili: immagini decorative. L’episodio è un atto di gelosia sessuale e di rabbia contro una donna che rifiuta la sottomissione.
La musica di The Wild Bunch è un elemento fondamentale nel definire il tono tragico e crepuscolare del film. Lontana dalle partiture epiche e romantiche del Western classico, la colonna sonora è anti-retorica, aspra, frammentata, a tratti dissonante e riflette un mondo morale spezzato, in cui non esistono più eroi. Alterna temi orchestrali scarni a improvvise esplosioni musicali che accompagnano la violenza, senza mai glorificarla. La musica destabilizza l’emozione dello spettatore, sottolineando l’assurdità e l’inevitabilità della morte. In molte sequenze cruciali, Peckinpah sceglie il silenzio o suoni ambientali.
The Wild Bunch è un western elegiaco, un requiem per un West che muore tra caos, tradimento e violenza senza redenzione.










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