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It Was Just an Accident (Un semplice incidente) Jafar Panahi (2025)

  • Writer: Planet Claire
    Planet Claire
  • 2 days ago
  • 3 min read

Updated: 52 minutes ago

Clara Bruno, 12 novembre 2025, tre minuti di lettura film visto in sala a Torino il 12 novembre 2025


It Was Just an Accident (Un semplice incidente) Jafar Panahi (2025)

Titolo originale: Yek taṣādof-e sādeh (letteralmente: "Un semplice incidente")

scritto, prodotto e diretto da Jafar Panahi

vincitore della Palme d’Or del 78° Festival di Cannes 2025

durata: 1h 43min


Un incidente apparentemente banale, l’investimento di un cane lungo una strada buia, innesca un crescendo di eventi inquietanti che denunciano la rete di corruzione e l'abuso di potere governativo in Iran, dove si vive dentro un’apparente normalità quotidiana. Il film è una riflessione profonda sulla impossibilità della vendetta.


Jafar Panahi, nato nel 1960, maestro del Cinema iraniano e coraggioso attivista per la democrazia, ripetutamente arrestato e imprigionato, ha subíto divieti governativi di girare film, ma ha sempre sfidato la censura, riuscendo a realizzare i suoi film e a mostrarli all’estero, sostenuto dal rispetto e dall'attenzione che il mondo del Cinema gli riserva. Quest’anno il regista è tornato al Festival di Cannes e ha vinto la Palme d’Or, trent’anni dopo aver presentato allo stesso Festival il suo primo bellissimo lungometraggio Il Palloncino Bianco, che vinse la Camera d’Or come Miglior Opera Prima nel 1995.


It Way Just an Accident / Un semplice incidente è un’opera sulla violenza dello Stato e una riflessione sulla intrinseca bontà d'animo e -per contro- sulla tirannia e malvagità che si confrontano. Panahi, con un linguaggio sempre più visionario, intreccia vendetta, dolore e assurdità quotidiana in un racconto in cui la tensione politica si fonde con l’ironia amara della commedia noir. C’è satira e farsa in un film bello, acutamente intelligente e un po' surreale.


Panahi tratteggia perfettamente un gruppo di personaggi che sono stati tutti dolorosamente vittime del regime. La vicenda ruota attorno a un uomo (Ebrahim Azizi), che durante un viaggio notturno con la moglie incinta e la figlia investe un cane. Emblematica questa scena iniziale che ci introduce alla psicologia dei malvagi: l'uomo e sua moglie mostrano sostanzialmente indifferenza per la povera bestiola e educano la loro figlioletta a considerare l'accaduto come un evento trascurabile, nell'ordine delle cose. Sono dunque completamente privi di compassione. Questa scena è una metafora della loro natura banalmente crudele, che minimizza il dolore inferto. (E in definitiva, come vedremo nella seconda parte del film, inserisce l'essere genitore come spinta interna a divenire una versione migliore di se stessi.) Poco dopo, l'auto si guasta e l’uomo cerca aiuto presso un’officina isolata, dove incontra Vahid (Vahid Mobasseri), meccanico dal fisico provato, che tiene un braccio piegato sul fianco per alleviare il dolore cronico ai reni. Quando Vahid riconosce in quel visitatore un ex torturatore del regime, il tono del film cambia improvvisamente e la tensione cresce in modo inarrestabile. Attorno a loro si muove un gruppo di figure segnate dalla stessa storia di soprusi e ingiustizie: un libraio perseguitato; Shiva, una fotografa di matrimoni (Mariam Afshari); gli sposi che sta ritraendo (la sposa Hadis Pakbaten, tutto il tempo nel suo abito nuziale bianco immersa nella baraonda come in una comica, e lo sposo Majid Panahi); Hamid, uomo dal carattere irascibile (Mohamad Ali Elyasmehr). Il film li segue in un viaggio allucinato, che li porta in un deserto dominato da un unico alberello, scenario che -come commenta un personaggio- pare evocare Aspettando Godot: assurdità e immobilità. Tra ricordi drammatici e rancori, la realtà si fa incubo; la violenza appare l’unico esito possibile. Ma ben presto, con una inaspettata svolta narrativa, si rivelerà inapplicabile, perché queste vittime hanno tutte una natura intrinsecamente e irreversibilmente buona. Fino a un finale sospeso che fa attentamente riflettere.


Panahi gira in modo magistrale e costruisce il racconto con un ritmo frammentato, alternando momenti di drammatica intensità a scenette dall'ironia beffarda. Grottesco e tragedia sono mescolati con una naturalezza disarmante. L’instabilità del tono riflette quella del Paese che ritrae, dove la brutalità istituzionale non ha soluzione di continuità in una quotidianità fatta di compromessi, paura e sopravvivenza. La critica più feroce è riservata al sistema di corruzione diffusa: un’infermiera pretende “regali", i poliziotti accettano tangenti con un lettore contactless di carte di credito, i funzionari trattano l’abuso come routine. Panahi osserva tutto lucidamente e criticamente, senza ombre moraliste. Questo bel film, molto toccante, è anche una disamina profonda e accurata sulla bontà come "costruzione sociale" e -ancora una volta- sulla responsabilità del singolo individuo che commette malvagità per conto di un governo fascista; in altre parole- sulla tristemente nota banalità del Male.

È un’opera che conferma Jafar Panahi come una delle voci più nobili del Cinema contemporaneo.


a web magazine on Film Criticism, Music, and Art
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la locandina del film vincitore della Palme d'Or
la locandina del film vincitore della Palme d'Or

Nel deserto i personaggi buoni del film si interrogano sulla possibilità di vendicarsi di un torturatore del regime
Nel deserto i personaggi buoni del film si interrogano sulla possibilità di vendicarsi di un torturatore del regime
l'attrice Mariam Afshari
l'attrice Mariam Afshari


 
 
 

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