TENDABERRY di Haley Elizabeth Anderson (USA, 2024)
durata 116’
in Concorso Lungometraggi
Arriva al Torino Film Festival quest'opera prima presentata al Sundance.
La parola inventata ‘tendaberry’ ci fa tornare alla grande cantautrice newyorkese Laura Nyro, che nel 1969 pubblicò uno splendido album dal titolo New York Tendaberry, con il quale esprimeva profondo amore per la città.
Il film vuole essere una lettera d’amore per Brooklyn della regista Haley Elizabeth Anderson, al primo lungometraggio. La regista compone un lirico ritratto di una giovane donna. In maniera formalmente slegata, se non fosse per la suddivisione in capitoli tramite l'avvicendarsi delle stagioni, ci presenta frammenti di vita in foto e video. Tendaberry, con la sua struttura libera, trova la propria cadenza nel modo in cui il direttore della fotografia Matthew Ballard e la montatrice Stephania Dulowski evocano una sensazione di cruda immediatezza. Le riprese a mano, con la cinepresa che fluttua quasi ininterrottamente intorno a Dakota, ci coinvolgono nella sua vita.
La regista usa vari piccoli episodi per farci abitare l’esistenza della sua protagonista Dakota (Kota Johan, una star naturale), cantautrice africano-latina ventenne che vive a Brooklyn, New York. Incontra il giovane ucraino Yuri (Yuri Pleskun) e nel primo capitolo il film racconta momenti di amorevole domesticità e silenzi confortevoli con il boyfriend. Ma quando il padre di Yuri si ammala nel suo paese natale, il giovane ucraino deve partire per prendersi cura di lui, proprio mentre inizia l'invasione russa. All'indomani dell'improvvisa separazione, Dakota continua la sua vita cercando di recuperare dallo sgomento e dalla malinconia. Incappa in fallimenti, tra un accadimento e l’altro: la difficoltà nel trovare un nuovo appartamento; lo scam immobiliare che subisce; il rischio di una gravidanza non pianificata; la perdita del lavoro in un mini market; i tentativi di rintracciare Yuri nell'Ucraina devastata dalla guerra; il cantare sui treni della metropolitana per guadagnare qualcosa; i ricordi dell’infanzia nella Repubblica Dominicana.
Il film ci porta anche a Coney Island vista attraverso la cinepresa Super-8 di Nelson Sullivan, un videomaker che durante gli anni Ottanta, in un’epoca pre-internet, accumulò 1900 ore di filmati in 59 bobine di pellicola, che hanno uno straordinario valore storico come testimonianza della comunità LGBT di New York: La voce narrante fuori campo della stessa protagonista cerca le tracce della città così cambiata.
La figura di Nelson Sullivan e il suo lavoro pionieristico di video-maker potrebbe valere una interessante presentazione al prossimo Film Festival torinese Lovers.
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